In questo volume è illustrato il senso della «carità cittadina» di cui fu fautore, nella Sicilia ottocentesca, il beato Giacomo Cusmano. L’espressione indica la dimensione civica dell’opera assistenziale svolta dal Boccone del Povero, fondato a Palermo dal giovane medico divenuto prete. Cusmano ne parlava scrivendo a sindaci e prefetti, ma anche ai parroci dei paesi in cui erano operative le case delle sue suore e alle stesse superiore di quelle case, per chiarire loro con quali argomenti dovevano pretendere la collaborazione delle autorità civili e delle amministrazioni locali. Il Boccone del Povero, infatti, aveva bisogno della sponda leale e disinteressata dei municipi e delle prefetture, dato che le collette cittadine non sempre portavano nelle dispense delle suore il necessario preventivato. I poveri, in quest’ottica, non erano più considerati come una componente sociale marginale o addirittura da emarginare. In un volantino distribuito a Palermo e in altre città o paesi dove operava il Boccone del Povero, Cusmano – rivolgendosi all’intera cittadinanza – chiamava i poveri «nostri concittadini» oltre che «nostri fratelli». Da questo loro status, di esseri umani e di cittadini, come tali dotati dei diritti di ogni altro essere umano e cittadino, deriva «in noi il sacro dovere di soccorrerli» e «in loro il diritto di chiederci almeno il necessario per la vita».
Senza voler evocare qui il concetto di reddito minimo di cittadinanza di cui oggi molto si parla in Italia, non possiamo non apprezzare il senso civico e la lucidità politica di queste affermazioni, peraltro argomentate da Cusmano con stile laico, sebbene ispirato dalle esigenze evangeliche. Per lui la carità era e doveva essere un vero e proprio regime sociale, normato dal criterio del bene comune oltre che dell’amore fraterno.